Da tela ruvida e robusta per i calzoni dei lavoratori portuali, ai costosi pantaloni griffati di oggi.
Declinato in tutte le gradazioni di colore e possibili sfumature del blu, stretch, largo, a vita alta e il tremendo "vita bassa".
Ne parlava Alberto Arbasino in un suo libro del 2008 intitolato proprio "La vita bassa".
Vi riporto la quarta di copertina: "E se la "vita bassa", per i prossimi Lévi- Strauss, diventasse un Segno antropologico tribale ed elettorale non solo giovanile, in un Musée de l'Homme con foto di addomi e posteriori aborigeni di fronte e profilo?"
Cercate di immaginarvi in questa galleria di varia umanità. Individui di tutte le età accomunati dall'uso di un calzone a "vita bassa": adolescenti e signore di mezza età, giovanotti in forma e senza forma, alti e bassi, magri e rotondi.
Ombelichi che faticano a occhieggiare dai rotoli di ciccia, mutande al vento e peggio ancora quella peluria maschile o femminile che affiora lì, dove cominciano le natiche.
Rassegnatevi! La "vita bassa" non slancia, non fa sembrare più giovani o più magre, non è comoda e ormai non è neanche più di moda.
Pochissime figure possono permettersi il jeans a vita bassa, sempre che l'uso di questo taglio possa considerarsi un privilegio della natura. Ad ogni modo, anche chi potrebbe indossare la vita bassa senza far fuoriuscire carne e pelle avvizzita, non acquisisce chissà quale caratteristica attrattiva.
Possiamo tollerare la "vita bassa" negli adolescenti - a prescindere da quanto vestano male - proprio per il loro bisogno di sentirsi parte di un gruppo, di una tribù.
Dopo i vent'anni però, non dovremmo più avere bisogno di un "Tag" che ci faccia sentire uguali e conformi, all'interno della "tribù del ventre strizzato".

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