venerdì 23 novembre 2018

Bacchette o forchette? - sul caso D&G in Cina




Chi si occupa di linguistica e di comunicazione sa benissimo che gli stereotipi non sono sempre cose negative ma possono invece diventare degli utili strumenti per la comprensione della mentalità di una lingua o di Paese straniero.
Se noi italiani troviamo giustamente offensivo essere additati come "tutti mafiosi", credo invece che nessuno possa offendersi per l'associazione Italia= Pizza che è una delle ricette più diffuse e amate al mondo.
Il caso #DolceandGabbana è probabilmente esploso a causa di una serie di cattive interpretazioni inerenti l'uso della lingua e degli stereotipi.
Non posso credere infatti che i cinesi si siano offesi per le ambientazioni tradizionali (alle quali tengono molto e per le quali sono riconoscibili) come le lanterne di carta e il colore rosso. Io, fossi cinese, ne sarei fiera. Il rosso è simbolo di potenza, vita e rivoluzione e se viene usato per l'oggettistica cheap lo è anche per le stupende lacche cinesi d'epoca che sono preziose e costosissime.
No, che si siano offesi per questo proprio non lo credo.
Vero è che se fossi stata la responsabile della comunicazione di D&G o il creativo dell'agenzia che ha ideato gli spot avrei agito diversamente.
Avrei confuso gli stereotipi e ribaltato il pensiero comune occidentale dal punto di vista di un orientale. Come?
Così: - una coppia di giovani cinesi entra in un ristorante italiano in Cina. Loro sono molto divertititi nell'osservare il locale arredato con gusto kitsch, i murales un po' naif che rappresentano Venezia e Napoli e la voce di Andrea Bocelli in sottofondo. Insomma fanno quello che facciamo noi italiani quando entriamo in un ristorante cinese.
- il cameriere è un orientale vestito da "italiano" e prende le ordinazioni. I due si guardano perplessi.
- il cameriere torna e porta a tavola le posate, tra cui la forchetta.
- I ragazzi guardano la forchetta preoccupati ma nessuno dei due vuol far capire all'altro che non sa come si usa. (Come facciamo noi italiani nei ristoranti orientali).
- Il cameriere porta ai due giovani due bei piatti di spaghetti pomodoro e basilico e augura buon appetito in un italiano stentato.
- I ragazzi prendono la forchetta e dopo un paio di maldestri tentativi chiamano il cameriere che ritorna munito di bacchette.
I due si sorridono e finalmente possono gustare il piatto italiano.
Ecco, io l'avrei fatta così. Ci saremmo presi in giro entrambi e avremmo anche ispirato una certa simpatia nella condivisione della piccole difficoltà della vita che tutti noi Europei, Italiani, Cinesi incontriamo e affrontiamo con un sorriso.
p.s.
Scusate ma non ho tempo per uno storyboard fatto come si deve. Se D&G mi vogliono per le prossime campagne internazionali mi troveranno qui, sono la signora Carlomagno.



martedì 30 ottobre 2018

La terra dei sussurri - romanzo

Immagine da culturacolectiva.com/historia/leyenda-de-la-flor-de-cempasuchil/


Da un po' di tempo leggo con sempre maggior curiosità e soddisfazione libri di persone che conosco, in senso più o meno stretto.È il caso di Laura Frassetto alla quale non ho avuto ancora il piacere di stringere la mano ma con cui, nel vasto mondo dei social, ci siamo scambiate commenti, osservazioni e opinioni su quel pazzo pazzo mondo che è l'editoria.Fresco di stampa, il suo "La terra dei sussurri" mi ha tenuta inchiodata alle pagine per due giorni - in questo caso la chiusura delle scuole a causa del maltempo è caduta come il cacio sui maccheroni o sulle tortillas – è il caso di dire.
Frassetto esordisce con un editore di qualità come Elliot e già da ora mi auguro che possa percorrere strade costellate di riconoscimenti e soddisfazioni.
Ma veniamo al romanzo.
La vicenda in sé è quella di una "quest" ,una ricerca, il più classico dei motivi scatenanti di una grande narrazione a cominciare dal santo Graal.
Dei giovani belli e intelligenti, dai vari talenti più o meno nascosti, decidono di andare in Messico alla ricerca della loro amica Vanessa là scomparsa circa un anno prima.Il gruppo è così composto: Yatzil (che si fa chiamare Jey e che guiderà gli altri pur spostandosi per lavoro in varie parti del mondo) e Citlali gemelle italo messicane di una bellezza sconcertante e di grandi capacità intellettive, due fate insomma; Nirvana il fascinoso e paziente cugino messicano delle due e Pier, biondo torinese aspirante ingegnere, fidanzato di Citlali (detta Lali).
In questo gruppo la nota stonata sembra essere proprio Vanessa, la scomparsa. Una ragazza dai capelli rossi, goffa e solitaria, studentessa sovrappeso che si sente una farfalla schiacciata dal peso del suo corpo, dalla solitudine dei figli unici, dalle aspettative e dalle ansie - giustificate - dei genitori. Fino a un certo punto riesce a "sollevarsi da terra" perché fa breccia nel cuore di Lali che le è sinceramente e disperatamente amica fin dai tempi delle medie.
Lali, pur senza allontanarsi dalla gemella, diventa per Vanessa una sorella e le trasmette la curiosità e l'amore per i viaggi e il Messico tanto che insieme, dopo la maturità, vanno in un posto favoloso dove volontari da tutto il mondo organizzano campi per proteggere le piccole tartarughe marine alla schiusa delle uova.A un certo punto però Vanessa raggiunge una certa autonomia, forte anche dei suoi studi in ingegneria nei quali ripone la fiducia assoluta che le apriranno le finestre del mondo. Impara bene lo spagnolo e torna in Messico da sola per poi scomparire.
A questo punto non vi svelerò altro della storia ma preferisco soffermarmi sulle scelte di stile e su alcuni riferimenti.
La trama è sviluppata secondo una tecnica "alla Rashomon": a parlare in prima persona si alternano i "cercatori" e anche Vanessa, punto di vista multiplo che riesce comunque a mantenere un ritmo appassionante.
Il filo che ci conduce alla fine è quello sottile e ben ritorto della detective story ma, e questa è la parte che preferisco, adoro leggere romanzi che nel frattempo mi insegnano qualcosa e in questa narrazione dai tratti talvolta picareschi (e come potrebbe essere diversamente) si impara qualcosa di quella dimensione complessa e composita che è il Messico di oggi ancora saldamente intrecciato a quello di ieri.

Così ritroviamo i colori di Frida Kahlo musica di gruppi pop, le canzoni della tradizione, una tormentata e al tempo stesso spensierata vita quotidiana che si nutre di fatalismo nei confronti del destino che si vorrebbe ignoto e che invece, il più delle volte, si conosce fin troppo bene.Una nota in particolare per la digressione su el Dìa de Muertos (i nostri cercatori arrivano in Messico in prossimità di Ognissanti) e sulle tradizioni ad esso collegate (come non ricordare il film Coco).
 Se noi abbiamo i crisantemi per onorare i nostri defunti, loro hanno i cempasuchil.
In Messico anche i fiori dei morti profumano.



domenica 19 agosto 2018

Ah dottò, che ve serve?




Il cinema italiano degli anni '50 e '60 ci aveva già spiegato tutto da "La famiglia Passaguai" a "I mostri" passando per "Il conte Max", la commedia all'italiana attraverso le maschere interpretate da grandi attori come Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Nino Manfredi, Alberto Sordi..., ci aveva già detto cosa era e cosa sarebbe stata l'Italia.
Abbiamo creduto tutti che fosse solo commedia e che Totò e Gassman stavano lì per farci ridere, per farci passare un'ora e mezza spensierati.
Questo è il problema; eravamo (anzi eravate) tutti spensierati davanti a quelle storie in bianco e nero quando invece avreste dovuto accendere il cervello e aprire bene occhi e orecchie.
I vari "Dottò", "Cummenda", gli "Onorevole Trombetta" e i "dottor Tersilli" erano la nostra classe dirigente e lo sarebbero sempre stata.
Parliamo delle infrastrutture che crollano e non ci ricordiamo dell'Italia tutta condonata tra gli anni '70 e '80, dell'abusivismo che diventa legale se paghi l'obolo al Comune/Assessore.
Ve lo ricordate "Er monnezza" (ovvero l'ispettore - e sottolineo "ispettore"- Nico Giraldi) in un film in cui costruisce una casa abusiva di cui nottetempo si affretta a fare il tetto così che non possa essere abbattuta – per legge?
Io me lo ricordo e mi ricordo che non ci trovai niente da ridere perché è così che tanti di noi (voi) si ritrovano una casa, magari nel letto di un fiume (come l'Aniene in quel caso) o sulle pendici di un vulcano o su una costa marina a rischio idrogeologico.
Quanti proprietari di case hanno "rialzato" un piano perché il figlio aveva messo incinta la fidanzata e dovevano farlo sposare? Quanti di voi sono i figli "del piano rialzato" e poi condonato?
Negli anni della mia infanzia – gli anni '70/80 - ero piccola ma molto in grado di intendere e ricordo che nei paesi d'Abruzzo di mia frequentazione quando c'erano dei lavori pubblici: strade, ponti, argini, le prime cose che si organizzavano erano la distribuzione di sacchetti di cemento e materiali edili vari (comprati con soldi pubblici) per questo o quel funzionario che doveva farsi un muretto nell'orto o il garage o la rimessa degli attrezzi o la villetta.
Tanta mano d'opera "statale" o dell'ANAS veniva dirottata a casa di primari, marescialli, sindaci e quindi i lavori per rimettere a posto una strada duravano il doppio del tempo necessario. E il cemento mancante? A volte sostituito da breccia, a volte ricomprato (e poi ci chiedevamo perché i costi degli appalti aumentassero dopo l'inizio dei lavori).
Immaginate in questi decenni quanti sacchetti, ferri, mattoni, piastrelle, sampietrini e mano d'opera sono finiti nella casa/villa di dirigenti e impiegati, alti o bassi, di ogni ordine e grado.
Quanta roba e quanta attenzione e tempo pubblico ci siamo (vi siete) fregati?
Adesso neanche un esercito di alieni con menti superiori sarebbe in grado di ricostruire i milioni di rivoli in cui "il bene pubblico" è andato a finire: "questa 'ndo jaha metto dottò?"
I piloni non tengono? Le strade crollano? Inutile cercare un nome che faccia da capro espiatorio; i nomi li sappiamo già: "Dottò", "Cummenda", "Onorevole Trombetta", "dottor Tersilli"...

domenica 3 giugno 2018

Siedo e sospiro - rinascita del noir colto


Gioco a carte scoperte dicendo subito che conosco personalmente l'autore del romanzo di cui vi sto per parlare. Ciò non significa che io stia facendo un favore a un amico.
Chi mi conosce sa che non recensisco tutti i lavori delle persone con cui ho dei contatti diretti perché se qualcosa non è nelle mie corde preferisco affidarmi a "un bel tacer".
"Siedo e sospiro" è l'ultimo romanzo di Marco Lux, un testo che mi ha tenuta incollata alle pagine per due giorni, uno dei pochissimi casi in cui ci si potrebbe tranquillamente dimenticare di mangiare e dormire pur di arrivare alla fine.
Si tratta di un noir con molti riferimenti colti e una vena ben esposta di indagine antropologica. Detto così sembrerebbe un testo complesso invece possiede un ritmo e un amalgama tali da trasmettere suspense e freschezza al tempo stesso come non succede più per tanti autori blasonati, forse ormai stanchi di procedere a scadenze determinate dal mercato editoriale più che dall'ispirazione narrativa.
Ma torniamo al romanzo. Il protagonista è Sandro, un giovane insegnante di Livorno che si ritrova a coprire una supplenza di 40 giorni sull'Isola d'Elba.
Ospite nella casa delle vacanze di un'amica, cerca di ambientarsi nella vita isolana che lo accoglie con cieli grigi e aria fresca nonostante sia già il mese di maggio. Succede, maggio può essere già estate o una coda incostante della primavera. Una mattina, guardando fuori dalla finestra nota che un postino/corriere sta suonando alla porta della sua dirimpettaia, l'anziana Corinna che vive da sola con le sue gatte. Scoprirà il giorno seguente con sgomento che la donna è stata assassinata dopo essere stata violentata e che forse l'assassino è proprio l'uomo che lui ha visto di spalle. La notizia è sconvolgente ed inizia il "circo mediatico" che va da "Quarto grado" a "Chi l'ha visto" e anche Sandro, suo malgrado, finisce per diventare una specie di celebrità: "il testimone oculare".
Ormai sull'Elba si parla del killer delle vecchiette e purtroppo Corinna non sarà l'unica vittima.
La vicenda legata all'indagine è solo un livello del romanzo perché ovviamente l'isola è una grande protagonista coi suoi luoghi, i suoi umori, la sua gente. Poi ci sono i richiami letterari ed artistici legati al programma ministeriale che Sandro deve svolgere al liceo: i poeti preromantici e romantici e un bel progetto interdisciplinare con il suo collega di inglese.
Sandro cerca di mantenere una sorta di equilibrio nonostante la dose massiccia di emozioni e tensioni e per farlo tenta di costruirsi un routine sentimentale e sessuale. Su Grindr trova Mario, un giovane locale simpatico e molto attraente, che lo introdurrà nell'ambiente gay dell'Elba, più paludato e discreto rispetto a quello delle città della costa. Di qui una galleria di personaggi che, pur se comprimari in questa storia, emergono a tutto tondo nei loro pregi e nei loro difetti con la musica, il sentimentalismo e il cinismo a prevalere alternativamente l'uno sull'altro.
Un romanzo in cui c'è tutto: mondo narrativo, thriller, ironia, malinconia, costruzione dei personaggi, riferimenti culturali e popolari, contemporaneità.
Lo consiglio vivamente. Ecco, lo potete trovare su lulu.com
http://www.lulu.com/shop/marco-lux/siedo-e-sospiro/paperback/product-23659552.html

Vi garantisco che l' "on demand" nel caso di Marco Lux è una scelta di libertà e non un ripiego rispetto all'editoria "tradizionale" alla quale farebbe un gran bene accaparrarsi un autore di questo livello.

mercoledì 14 febbraio 2018

Io, la schwa e l'arminuta

Immagine da Pinterest

Sto scrivendo un nuovo romanzo e nel testo mi trovo alle prese con la traslitterazione di dialoghi in dialetto abruzzese, in realtà del dialetto di una specifica parte dell'Abruzzo al confine con le Marche.
Chi si è occupato di dialettologia sa benissimo che è difficile definire le aree di un dialetto proprio perché, essendo principalmente deputato alla lingua parlata, non possiede una norma né morfologica né lessicale, tanto meno fonetica.
Questo è il principio secondo il quale non si può parlare di dialetti in termini di “lingue” proprio perché non esiste per ciascuno di loro una versione normata.
Questa passa di solito dal testo scritto ed è il motivo per cui esiste un italiano standard che è derivato per massima parte dall'italiano letterario.
Ora, negli ultimi tempi si è dato sempre più spazio ai dialetti nella letteratura, un po' per rendere più realistico il contesto, un po' perché il lettore è disabituato alla lingua letteraria dell'Ottocento.
La modernità in letteratura passa anche attraverso l'uso del dialetto e dei suoi colori, tutto ciò è lodevole, sono la prima ad affermare questa necessità.
Ovviamente però non deve andare a detrimento della comprensione del testo stesso e quindi ci si trova a dover affrontare dei compromessi tra il dialetto e l'italiano.
Un caso esemplare è Andrea Camilleri che ha insegnato ai suoi lettori a capire, non il dialetto siciliano di “Girgenti” sia chiaro, ma quella lingua particolare che l'autore usa. Per molti di noi è ormai evidente il significato di termini come “cataminare”, “tambasiare” e “cabasisi”.
Il lavoro di Camilleri però riguarda più il lessico che la fonetica, si tratta di un compromesso in cui parole dialettali vengono lette e pronunciate mentalmente secondo le regole dell'italiano.
Il malfunzionamento di tale compromesso è evidente invece per quanto riguarda la fonetica.
Nei dialetti, in particolare del Sud, si usa un suono che in fonetica è ben riconosciuto e trascritto con un segno specifico poiché in altre lingue normate esso esiste e non si può farne a meno.
Chi ad esempio tenta di cantare canzoni napoletane non essendo napoletano deve fare i conti con questo suono che si chiama
schwa o scevà" ed è trascritto così: ə – per chiarezza non è una “e”, non è una “o”.
Nei nostri dialetti meridionali lo troviamo spesso in fine parola, ad esempio “bell
ə” al maschile che in italiano diventa “bello”.
Si tratta di un timbro indistinto di sonorità ridotta ma esistente e fondamentale.
A oggi mi pare di capire che la risoluzione del problema delle voci dialettali

nel testo scritto sia affidata alle singole case editrici che, secondo un protocollo più o meno condiviso, tentano di restituire graficamente questi suoni creando a volte dei pasticci.
Prendo ad esempio il romanzo “L'arminuta” di Donatella Di Pietrantonio poiché di Abruzzo in letteratura c'è poco e, quando c'è, è molto italianizzato.
Con tutta l'ammirazione e la stima che posso avere per l'autrice, ho vissuto con molto fastidio l'italianizzazione di una parola in particolare.
Nel romanzo le sorelle protagoniste della vicenda parlano tra loro ma una è abituata a parlare in italiano e l'altra (quella rimasta nella famiglia povera) usa il dialetto.
Mentre leggevo mi capitava di vedere apparire l'avverbio presentativo “Ecco” pronunciato dalla sorella “povera” e non capivo il perché.
Dopo qualche pagina ho realizzato che si trattava invece di quello che io conosco come “Jecc
ə” o “Èccə” che significa “Qui” ed è probabilmente di derivazione latina “Hic”.
Deduco che l'editore abbia deciso di trasformare in quel caso la “schwa” in “o” per similitudine con “bellə” = “bello” ma non funziona.
Ho pensato anche che l'autrice o l'editor volessero far intendere che la sorella “povera” si sforzasse di parlare italiano trasformando proprio lei la “schwa” in “o” ma mi pare molto cervellotica come scelta e di sicuro non arriva al lettore finale (a meno che non sia abruzzese, con infarinatura di dialettologia o giù di lì).
In sintesi, caldeggerei l'uso e l'applicazione della “schwa” così mi caverei d'impaccio anche io con questo testo che sto scrivendo, tanto ormai con la composizione digitale non è un problema,
è lu verə?