Immagine da Pinterest |
Sto
scrivendo un nuovo romanzo e nel testo mi trovo alle prese con la
traslitterazione di dialoghi in dialetto abruzzese, in realtà del
dialetto di una specifica parte dell'Abruzzo al confine con le
Marche.
Chi si è occupato di dialettologia sa benissimo che è difficile definire le aree di un dialetto proprio perché, essendo principalmente deputato alla lingua parlata, non possiede una norma né morfologica né lessicale, tanto meno fonetica.
Questo è il principio secondo il quale non si può parlare di dialetti in termini di “lingue” proprio perché non esiste per ciascuno di loro una versione normata.
Questa passa di solito dal testo scritto ed è il motivo per cui esiste un italiano standard che è derivato per massima parte dall'italiano letterario.
Ora, negli ultimi tempi si è dato sempre più spazio ai dialetti nella letteratura, un po' per rendere più realistico il contesto, un po' perché il lettore è disabituato alla lingua letteraria dell'Ottocento.
La modernità in letteratura passa anche attraverso l'uso del dialetto e dei suoi colori, tutto ciò è lodevole, sono la prima ad affermare questa necessità.
Ovviamente però non deve andare a detrimento della comprensione del testo stesso e quindi ci si trova a dover affrontare dei compromessi tra il dialetto e l'italiano.
Un caso esemplare è Andrea Camilleri che ha insegnato ai suoi lettori a capire, non il dialetto siciliano di “Girgenti” sia chiaro, ma quella lingua particolare che l'autore usa. Per molti di noi è ormai evidente il significato di termini come “cataminare”, “tambasiare” e “cabasisi”.
Il lavoro di Camilleri però riguarda più il lessico che la fonetica, si tratta di un compromesso in cui parole dialettali vengono lette e pronunciate mentalmente secondo le regole dell'italiano.
Il malfunzionamento di tale compromesso è evidente invece per quanto riguarda la fonetica.
Nei dialetti, in particolare del Sud, si usa un suono che in fonetica è ben riconosciuto e trascritto con un segno specifico poiché in altre lingue normate esso esiste e non si può farne a meno.
Chi ad esempio tenta di cantare canzoni napoletane non essendo napoletano deve fare i conti con questo suono che si chiama “schwa o scevà" ed è trascritto così: ə – per chiarezza non è una “e”, non è una “o”.
Nei nostri dialetti meridionali lo troviamo spesso in fine parola, ad esempio “bellə” al maschile che in italiano diventa “bello”.
Si tratta di un timbro indistinto di sonorità ridotta ma esistente e fondamentale.
A oggi mi pare di capire che la risoluzione del problema delle voci dialettali
nel testo scritto sia affidata alle singole case editrici che, secondo un protocollo più o meno condiviso, tentano di restituire graficamente questi suoni creando a volte dei pasticci.
Prendo ad esempio il romanzo “L'arminuta” di Donatella Di Pietrantonio poiché di Abruzzo in letteratura c'è poco e, quando c'è, è molto italianizzato.
Con tutta l'ammirazione e la stima che posso avere per l'autrice, ho vissuto con molto fastidio l'italianizzazione di una parola in particolare.
Nel romanzo le sorelle protagoniste della vicenda parlano tra loro ma una è abituata a parlare in italiano e l'altra (quella rimasta nella famiglia povera) usa il dialetto.
Mentre leggevo mi capitava di vedere apparire l'avverbio presentativo “Ecco” pronunciato dalla sorella “povera” e non capivo il perché.
Dopo qualche pagina ho realizzato che si trattava invece di quello che io conosco come “Jeccə” o “Èccə” che significa “Qui” ed è probabilmente di derivazione latina “Hic”.
Deduco che l'editore abbia deciso di trasformare in quel caso la “schwa” in “o” per similitudine con “bellə” = “bello” ma non funziona.
Ho pensato anche che l'autrice o l'editor volessero far intendere che la sorella “povera” si sforzasse di parlare italiano trasformando proprio lei la “schwa” in “o” ma mi pare molto cervellotica come scelta e di sicuro non arriva al lettore finale (a meno che non sia abruzzese, con infarinatura di dialettologia o giù di lì).
In sintesi, caldeggerei l'uso e l'applicazione della “schwa” così mi caverei d'impaccio anche io con questo testo che sto scrivendo, tanto ormai con la composizione digitale non è un problema, è lu verə?
Chi si è occupato di dialettologia sa benissimo che è difficile definire le aree di un dialetto proprio perché, essendo principalmente deputato alla lingua parlata, non possiede una norma né morfologica né lessicale, tanto meno fonetica.
Questo è il principio secondo il quale non si può parlare di dialetti in termini di “lingue” proprio perché non esiste per ciascuno di loro una versione normata.
Questa passa di solito dal testo scritto ed è il motivo per cui esiste un italiano standard che è derivato per massima parte dall'italiano letterario.
Ora, negli ultimi tempi si è dato sempre più spazio ai dialetti nella letteratura, un po' per rendere più realistico il contesto, un po' perché il lettore è disabituato alla lingua letteraria dell'Ottocento.
La modernità in letteratura passa anche attraverso l'uso del dialetto e dei suoi colori, tutto ciò è lodevole, sono la prima ad affermare questa necessità.
Ovviamente però non deve andare a detrimento della comprensione del testo stesso e quindi ci si trova a dover affrontare dei compromessi tra il dialetto e l'italiano.
Un caso esemplare è Andrea Camilleri che ha insegnato ai suoi lettori a capire, non il dialetto siciliano di “Girgenti” sia chiaro, ma quella lingua particolare che l'autore usa. Per molti di noi è ormai evidente il significato di termini come “cataminare”, “tambasiare” e “cabasisi”.
Il lavoro di Camilleri però riguarda più il lessico che la fonetica, si tratta di un compromesso in cui parole dialettali vengono lette e pronunciate mentalmente secondo le regole dell'italiano.
Il malfunzionamento di tale compromesso è evidente invece per quanto riguarda la fonetica.
Nei dialetti, in particolare del Sud, si usa un suono che in fonetica è ben riconosciuto e trascritto con un segno specifico poiché in altre lingue normate esso esiste e non si può farne a meno.
Chi ad esempio tenta di cantare canzoni napoletane non essendo napoletano deve fare i conti con questo suono che si chiama “schwa o scevà" ed è trascritto così: ə – per chiarezza non è una “e”, non è una “o”.
Nei nostri dialetti meridionali lo troviamo spesso in fine parola, ad esempio “bellə” al maschile che in italiano diventa “bello”.
Si tratta di un timbro indistinto di sonorità ridotta ma esistente e fondamentale.
A oggi mi pare di capire che la risoluzione del problema delle voci dialettali
nel testo scritto sia affidata alle singole case editrici che, secondo un protocollo più o meno condiviso, tentano di restituire graficamente questi suoni creando a volte dei pasticci.
Prendo ad esempio il romanzo “L'arminuta” di Donatella Di Pietrantonio poiché di Abruzzo in letteratura c'è poco e, quando c'è, è molto italianizzato.
Con tutta l'ammirazione e la stima che posso avere per l'autrice, ho vissuto con molto fastidio l'italianizzazione di una parola in particolare.
Nel romanzo le sorelle protagoniste della vicenda parlano tra loro ma una è abituata a parlare in italiano e l'altra (quella rimasta nella famiglia povera) usa il dialetto.
Mentre leggevo mi capitava di vedere apparire l'avverbio presentativo “Ecco” pronunciato dalla sorella “povera” e non capivo il perché.
Dopo qualche pagina ho realizzato che si trattava invece di quello che io conosco come “Jeccə” o “Èccə” che significa “Qui” ed è probabilmente di derivazione latina “Hic”.
Deduco che l'editore abbia deciso di trasformare in quel caso la “schwa” in “o” per similitudine con “bellə” = “bello” ma non funziona.
Ho pensato anche che l'autrice o l'editor volessero far intendere che la sorella “povera” si sforzasse di parlare italiano trasformando proprio lei la “schwa” in “o” ma mi pare molto cervellotica come scelta e di sicuro non arriva al lettore finale (a meno che non sia abruzzese, con infarinatura di dialettologia o giù di lì).
In sintesi, caldeggerei l'uso e l'applicazione della “schwa” così mi caverei d'impaccio anche io con questo testo che sto scrivendo, tanto ormai con la composizione digitale non è un problema, è lu verə?
Nessun commento:
Posta un commento
Commentate con stile, please.